Il restauratore di immagini

Paolo de Cuarto esplora il passato e lo corteggia con la stessa passione dello storico, con il quale condivide anche una sorta di culto della memoria. Indaga, scava, dissotterra senza tregua alla ricerca di tracce nascoste da riportare in vita. Il suo è un discorso privo di boria e solennità, che si articola per lacerti di linguaggio visivo e procede per frammenti, quasi a voler indicare che il solo racconto concesso sulla modernità si debba imperniare su istantanee tratte dal nostro passato più o meno recente, rivisitate di volta in volta in chiave ironica, documentaristica o nostalgica. Non insegue la provocazione né inventa iconografie accattivanti, attingendo piuttosto dall’inesauribile deposito che è il passato ed estrapolando da esso le immagini con le quali si confronta e alle quali restituisce vita. Questo giovane artista non insegue il mito e neppure certo i Miti d’oggi di barthiana memoria. Non è l’aura che blandisce, istintivamente consapevole, con Walter Benjamin, che nell’epoca della riproducibilità tecnica essa è andata irrimediabilmente perduta. Scava piuttosto sotto l’epidermide della contemporaneità e scopre che sui muri – da qui la scelta della tecnica utilizzata alla quale dedichiamo un breve paragrafo in conclusione – sono conservate le immagini che si sono annidiate nella mente di intere generazioni andando a costituire le tracce mnestiche dell’immaginario collettivo di un’epoca. E quelle tracce, moderne e peculiarissime specie in via d’estinzione, rischiano di scomparire per sempre. Nessun ente provvederà a metterle in salvo, nessuna associazione si preoccuperà di censirle, nessun comitato raccoglierà firme per tutelare la prosecuzione della specie. Solo la follia dell’artista – e il suo genio – poteva intraprendere un lavoro a metà tra la ricerca archeologica e l’evocazione magica, volto alla riscoperta di un passato che ci parla e ci commuove se soltanto proviamo a prestargli ascolto.

E proprio da quell’immaginario di un’epoca al quale abbiamo alluso, parte il racconto che non può avere altro connotato che quello di una narrazione che si modula per brandelli, alla maniera dei discorsi amorosi di Stendhal e dei barbagli luminescenti dell’ultimo Nietzsche, un discorso che si articola per aforismi o per baluginii, comunque per flash e istantanee che riemergono dal passato per evocare atmosfere e suscitare nostalgie. Ciò che garantisce dell’assoluta freschezza delle opere di questo giovane artista è la mancanza di quella stolida spocchia educativa propria di una certa pittura che si è ritagliata uno spazio non marginale sul palcoscenico artistico del nuovo millennio.

E che sia un discorso frammentario lo si evince ancor più dal fatto che delle immagini e degli slogan scelti da de Cuarto per rievocare un’epoca, restano soltanto dei lacerti, parziali e arbitrari, meravigliose metonimie visive che hanno il potere evocativo e magico delle fantasmagorie senza per questo anelare al ruolo di improbabili e boriose cosmogonie moderne. De Cuarto non dà forma a un mondo, lo rievoca semmai attraverso il lavoro attento e delicato che assume i contorni del suo inconfondibile timbro.

Partendo da questa premessa, è forse più facile avvicinarsi ai lavori di un pittore la cui cifra espressiva prevede il saccheggio continuo e deliberato del passato volto a restituire vita a immagini ormai lacere, consunte e spesso dimenticate. Quello che si articola nelle sue tele è un brillante fraseggio e leggero attraverso la memoria recente, una memoria che esplora, scava, si arrampica sui muri, li gratta e grattandoli ritrova i segni di un tempo che è stato eroso ma che ancora pulsa e chiede solo di essere fatto rivivere. “La memoria ci fa simili agli dèi” recita un celebre aforisma greco. Possiamo dire allora che la pittura di Paolo de Cuarto ci sfida anzitutto a penetrare in quei temi che da sempre hanno affascinato gli artisti e li hanno avvicinati al divino: la memoria in primis ma anche il tempo e il rapporto che intercorre tra l’opera del pittore e la sua epoca.

Che la memoria sia la protagonista di queste opere, ancorché in una forma frammentaria che si articola attraverso lampi piuttosto che attraverso un discorso organico, lo deduciamo anche e soprattutto dalle scelte iconografiche dell’artista, scelte che attingono tanto dalla propaganda politica che dalla cartellonistica pubblicitaria di inizio secolo, attraversando gli anni della diffusione dilagante dell’immagine per giungere fino all’ostentata bellezza femminile dei volti enigmatici delle réclame anni ’50. Se gettiamo uno sguardo attento attraverso questi lavori, ci accorgiamo che è possibile ricavare una panoramica molto ricca sullo sviluppo e la storia dell’immagine.

Ma è bene precisare da subito che questo genere di ricerca attraverso le immagini – e soprattutto quelle speciali immagini rappresentate dalle pubblicità murali – ha portato l’artista a confrontarsi con una storia lunga almeno un secolo e mezzo e che affonda le radici nell’America del secondo Ottocento. Una storia che parte dai cosiddetti Ghost Signs, i giganteschi affreschi murari delle città americane che pubblicizzavano prodotti commerciali in prossimità di crocevia e strade di grande comunicazione. L’abbattimento dei prezzi della carta e l’introduzione delle nuove tecniche di stampa consentirono, a partire dalla Francia del secondo Ottocento, di stampare affiche di formati sempre più grandi. Ma ancora sul finire dell’800 non era certo pensabile stampare manifesti pubblicitari di così ampie dimensioni. La sola possibilità offerta dalle tecniche dell’epoca per realizzare pubblicità di grande formato era quella di dipingere sui muri delle case. Per questa ragione si cominciò a utilizzare le facciate cieche dei palazzi, avvalendosi della cosiddetta tecnica murale. Da allora le immagini non hanno più smesso di campeggiare nelle nostre città e nel nostro immaginario, ricavandosi uno spazio sempre maggiore, destinato, nel secolo seguente, a inglobare tutto. Certo, le tecniche compositive, le forme e molti degli stessi prodotti sono cambiati, ma se si cerca la scaturigine di questa civiltà dell’immagine che oggi tutto avvolge e tutto permea, forse è necessario gettare uno sguardo proprio a quelle immagini d’oltre oceano che abbacinavano i più curiosi tra i visitatori europei.

Paolo de Cuarto ha compiuto una vera e propria ricerca sui Ghost Signs ancora presenti sulle facciate cieche dei palazzi americani, realizzati, come detto, tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo. Sono rimasti ancora lì, alcuni per una curiosa volontà mai espressa di conservazione del passato, altri per semplice noncuranza dei proprietari dei muri che li ospitano, memento di una civiltà che molto è cambiata e molto ha perduto nei vorticosi mutamenti che l’hanno investita. Molti Ghost Signs raffigurano pubblicità di prodotti non più pubblicizzabili – celebre, ad esempio, quella che raffigura uomini intenti a masticare foglie di tabacco – che proprio per questo hanno un sapore nostalgico ed evocano atmosfere di un tempo che non c’è più.

Questa forma di comunicazione pubblicitaria è continuata fino a buona parte del Novecento, fino a quando cioè le innovazioni tecniche hanno consentito di stampare manifesti di dimensioni tanto imponenti da soppiantare i Ghost Signs. Con l’avvento di queste nuove tecniche e con l’affermazione dei nuovi prodotti, la pubblicità murale divenne rapidamente obsoleta e fu sostituita da quella cartellonistica. I muri però coninuarono a ospitare scritte e immagini di ogni genere. E così fino ai giorni nostri, nei quali i muri, materia pulsante, viva, trasudano ricordi e conservano il sapore di ciò che (quasi) tutti tendono a dimenticare. Poi sarebbero arrivati il cinema, la televisione e tutto l’armamentario di immagini mobili che avrebbero scompaginato le carte in tavola, sconvolgendo il secolo e le nostre percezioni. Ma in principio era la pubblicistica murale.

Partendo da questa originale ricerca, l’artista ha intrapreso un percorso di recupero che si sostanzia in un’indagine quasi archeologica volta a ridare vita a tutti quei segni, a quelle immagini e a quelle tracce che sono stati cancellati dai muri della nostra civiltà, ma che in un passato recente l’avevano accompagnata e accarezzata, tracciandone il profilo.

Quello che interessa all’artista de Cuarto è dunque il lavoro sulla memoria che si intreccia con la passione per l’immagine e si innesta su una riflessione che ha per oggetto il tempo e la sua facoltà di rimuovere, di cancellare e di dar forma alla nostalgia.

Nonostante i continui riferimenti alla società e ai diversi contesti sociali che fanno da sfondo alle immagini sulle quali si concentra, non è un discorso sociologico e neppure una diagnosi sulla condizione dell’arte ciò che l’artista intesse in questi lavori. È piuttosto un dialogo con le forme che hanno composto l’immaginario collettivo e che hanno campeggiato nelle città, prima di scomparire e lasciare spazio ad altre forme in un processo di rimozione sempre più frenetico che è diventato quasi il timbro stesso della nostra epoca.

La stessa tecnica utilizzata, attraverso la quale l’artista ricrea l’intonaco delle pareti e dà forma alle sue composizioni, richiama immediatamente i muri delle città dai quali ancora oggi affiorano segni, forme, grafiti. Per questa ragione non è azzardato definire l’arte di Paolo de Cuarto una poetica murale. Sono proprio i muri, infatti, che hanno sostituito, nel corso dell’ultimo secolo, le absidi o le cappelle celebrative che ospitavano i mosaici o gli affreschi – prima che il ruolo fosse assunto in via forse definitiva dalla pensiline IGP Decaux, come racconta Marc Fumaroli in un recente saggio. L’artista, riproducendo in studio quella inconfondibile consistenza murale, finisce per raccontare una civiltà che ha perso non soltanto il senso del sacro ma che ha anche smarrito la capacità di riconoscere il valore dell’otium e si è dimostrata a più riprese dimentica del potere magico e salvifico dell’immagine.

Ogni immagine, sembrano suggerire i lavori di Paolo de Cuarto, ha assunto per noi primariamente una funzione d’uso, è diventata un imprescindibile strumento di persuasione. È, prima di ogni altra cosa, moneta di scambio, veicolo, tramite. Serve ad ammaliare per far vendere, in parole povere. Ma proprio nella sua funzione d’uso, l’immagine viene equivocata e svilita: il potere evocativo, analogico, allucinatorio unito alla sua dimensione ambigua e allusiva, rimangono fatalmente relegati in secondo piano, misconosciuti. Proprio su questo aspetto magico ed evocativo concentra invece l’attenzione il nostro artista, memore certamente, come vedremo subito, dell’insegnamento di alcuni importanti artisti del ‘900 che hanno giocato un ruolo non marginale nella sua formazione.

Scendendo nel dettaglio del lavoro di de Cuarto si apre infatti una serie di riflessioni su temi che meritano più di un cenno fugace e che necessitano di qualche richiamo alle vicende artistiche del secolo appena finito.

Il primo di questi temi concerne la decontestualizzazione dell’oggetto, tema caro alle avanguardie del primo Novecento e che è stato declinato nei più svariati modi per consentire di far risuonare l’intera gamma espressiva dell’oggetto d’arte. Marcel Duchamp in primis, e molti altri nella sua scia, ha fatto di questa apparentemente semplice intuizione l’origine delle proprie fortune artistiche. I Dadaisti, ma anche gli esponenti più originali della Pop Art e i Nouveau Realiste europei, hanno tenuto conto di questo insegnamento fondamentale, abusandone in molti casi, fraintendendolo a volte e svuotandolo completamente di senso in alcuni casi limite. Ciò che sorprende dei lavori di De Cuarto non è dunque l’idea di decontestualizzare l’oggetto, idea usata e abusata, bensì il fatto che il processo di decontestualizzazione si concentri esclusivamente sull’immagine, la quale può finalmente tornare a sprigionare la sua carica magnetica e a far vibrare tutto il suo potere incantatorio. Siamo di fronte a uno spostamento di segno, in una certa misura. L’immagine – sotto forma di marchio pubblicitario, di simbolo politico o di pin-up ammiccante poco importa – che ha una sua genesi, un suo valore d’uso e un suo crepuscolo, viene prima riportata in vita dall’artista attraverso un meticoloso lavoro di scavo e di ricerca e poi spostata in un contesto diverso da quello originario e per il quale era stata pensata. Il passaggio dal muro della strada allo studio dell’artista è un passaggio esclusivamente mentale in questo caso. Oggi quelle immagini, che sono state protagoniste sui muri delle città nei decenni passati, non “servono” più a nulla se non a mostrarsi in tutta la loro capacità seduttiva, sotto forma di eleganza e forza evocativa. E questo accade grazie alla sensibilità di un artista raffinato e discreto, che compie una piccola rivoluzione senza urla né strepiti. Niente di meno è riuscito infatti a realizzare de Cuarto attraverso i suoi lavori che consentire all’immagine di risplendere in tutta la sua forza espressiva, senza però dover attingere all’armamentario provocatorio, dissacrante e urlato dei linguaggi contemporanei.

Su questa eredità duchampiana, come detto spostata di segno, de Cuarto innesta una serie di suggestioni derivate dalle esperienze artistiche del ‘900, anch’esse rivisitate in chiave molto personale. Sia sufficiente accennare all’uso in termini feticisti dell’immagine, che ha un antecedente nella poetica della Pop Art americana. Oppure basti tratteggiare la genealogia, che ha il suo capostipite in John Cage, dell’avvento della casualità nella realizzazione dell’opera d’arte. Amante della accidentalità anche nella stesura del colore, de Cuarto evita l’uso di maschere per rendere, proprio attraverso la manualità e l’artigianalità, l’imperfezione e la casualità del tratto.

Il retaggio acquisito dal Nouveau Realisme si incardina intorno alla poetica del frammento, quella che ha consentito a Daniel Spoerri ma anche ad Arman e a Mimmo Rotella di esprimere, con il semplice utilizzo di elementi marginali, di lacerti e brandelli, una visione del mondo, del tempo e dell’arte. E proprio da Rotella riceve in eredità una riflessione sull’antinomia tra valore d’uso e potere evocativo dell’immagine, riflessione che è alla base di molte sperimentazioni del grande artista calabrese. E se il riferimento a Mimmo Rotella è quasi obbligatorio per aiutarci a penetrare più a fondo nella poetica di queste opere – de Cuarto ha lavorato a stretto contatto con Rotella per diversi anni –, dobbiamo d’altro canto evitare di lasciarci fuorviare da troppo facili e apparenti somiglianze. Se è vero infatti che Rotella strappa le immagini dal loro contesto “naturale” – le strade – per donare loro una vita ulteriore, arricchita, impreziosita e talvolta mutata di segno, è altresì vero che il dato tangibile, oggettuale delle locandine e dei manifesti riveste nella sua arte un ruolo essenziale. C’è un dato fisico, quasi materico nei Décollage e in quasi tutte le sperimentazioni di Rotella che è irriducibile, ineliminabile. La duplice lacerazione cui sottopone i suoi manifesti evoca un gesto di rivolta, di ribellione, spesso provocatorio e quasi sempre urlato. Lo stesso potremmo dire dei suoi Effaçage o delle sue Lamiere. Nelle opere di De Cuarto, che pure tengono conto di questo prezioso insegnamento, tutto viene decisamente alleggerito, ogni cosa perde la sua naturale fisicità e l’intonaco quasi finisce per fondersi con la consistenza leggera della tela che lo ospita. Il mezzo, il supporto, sembra affermare de Cuarto, è soltanto un pretesto per ricreare quel sapore murale che diventa strumento espressivo e che conferisce spessore alla rievocazione nostalgica – non è forse superfluo sottolineare che le opere di de Cuarto non vengono mai incorniciate. E se è vero che anche de Cuarto, come Rotella, porta i muri e il linguaggio della città sulla tela e nello studio e che anche lui è affascinato dalla dimensione stratificata e materica dell’immagine (decollage per uno, muro strappato per l’altro), ciò che resta nei lavori di questo giovane artista è qualcosa di meno lacerante e molto più struggente e delicato. Tutto si gioca, altro punto di contatto con Rotella, nel rapporto con le immagini e nel confronto con una civiltà che ne è satura e per questo motivo disabituata a osservarle. Come già Rotella, anche de Cuarto vuole riportare l’attenzione sulla dimensione del vedere, del fissare lo sguardo con attenzione sull’immagine, interrogandola e scandagliando tutte le sue potenzialità espressive. Ma il timbro è assai diverso: la provocazione urlata e lacerata di Rotella trascolora in questi lavori in un timbro più malinconico, sussurrato e leggero. Rotella, che è figlio della cultura d’avanguardia, con i suoi strappi e le sue provocazioni cerca disperatamente di aprirsi un varco verso il futuro. De Cuarto ha uno sguardo attento e indagatore rivolto al passato e dà forma al presente rivisitando le immagini della nostra storia recente. Sono due posizioni inconciliabili.

L’elemento nostalgico crediamo abbia anche una ragione specifica, che affonda le radici nell’arte stessa di de Cuarto. L’aspetto interessante del suo incedere artistico è rappresentato dal fatto che la ricerca privata condotta attraverso la storia delle immagini – in parte perdute –, acquista il senso di una antologia visiva di ciò che rischiamo di lasciarci sfuggire, in termine di ricordi, di tracce, di riferimenti. C’è qualcosa di un’epoca che non può essere riprodotto – scriveva il filosofo Henri Bergson in un celebre saggio di inizio ‘900 –, qualcosa che con il tempo e dal tempo viene distrutto in modo definitivo. È possibile conservare molte cose di un periodo storico, proseguiva il filosofo francese: le architetture, la letteratura, le opere d’arte ci aiutano a ricostruire elementi importanti che hanno caratterizzato un’epoca. Ma il sapore di una civiltà, il suo profumo scompaiono immancabilmente con l’avvento di nuove culture. C’è qualcosa che viene distrutto per sempre e che non potrà più essere rievocato. Le opere di de Cuarto si muovono proprio tra questi due poli opposti: riportano in vita ciò che era destinato all’oblio, tentando di restituirci il profumo di un’epoca, di ciò che è andato immancabilmente perduto. Da lì, forse, il tono malinconico e a tratti struggente dei suoi lavori.

Un ulteriore elemento di riflessione può aiutarci a perforare il velo che ammanta queste opere e a interrogarle nella loro natura più profonda. In questi frammenti, che la memoria e il lavoro artistico strappano con forza all’oblio, le immagini e gli slogan che compongono i manifesti pubblicitari e quelli elettorali sono quasi sempre amputati, talvolta troncati di netto, quasi a voler mettere in risalto il potere deflagrante dell’immagine rispetto a tutto il resto, fermando l’attenzione su un brandello di quello che a sua volta era un frammento della memoria, accentuando in tal modo il carattere quasi archeologico di un procedimento di recupero. Quello che resta di un procedimento che agisce per sottrazione,  è il frammento di un frammento. Tutto il resto viene ridotto dall’artista a una sorta di spettatore trascurabile, su una scena nella quale l’immagine – ancorché amputata e forse proprio per quello – torna a ergersi sovrana. Ecco allora che dall’eikon, una volta liberata dalle catene della funzione d’uso, può sprigionarsi tutta la virulenta e deflagrante forza evocativa. L’immagine vive finalmente nella sua piena dimensione simbolica, nella sua autonomia espressiva e nella apertura a richiami che mettono in moto il potere analogico che da sempre in essa è custodito. La magia dell’immagine e della visione può finalmente tornare a mostrarsi.

Come già sottolineato, c’è una vena fortemente nostalgica nei lavori di questo artista, e questa vena fornisce il sapore di fondo a tutto il suo lavoro di scavo. È un’arte volta al recupero dei linguaggi del passato come detto, ma non di un generico passato si tratta in queste opere, bensì di quel momento specifico che è rappresentato dagli anni ‘50 e ‘60 della nostra storia recente, che però scandaglia ed è cosciente anche dell’origine di quella pubblicistica murale che affonda le radici, come visto, nei Ghost Signs americani di fine ‘800, che attraversa i primi decenni del ‘900, nei quali verrà resa dal fascismo fondamentale strumento retorico di propaganda, e che giunge fino agli anni che specificamente interessano il nostro artista, quelli ricchi di una creatività mai paga e sempre pronta a ripensare i linguaggi e il mondo. È in quel momento storico, infatti, che prende forma il quesito che accompagnerà tutta la seconda metà del secolo e che ancora aspetta di trovare una risposta definitiva: ci si chiede se sia l’immagine a usare il veicolo pubblicitario per affermare la propria autonomia, per reclamare un culto incondizionato, per chiamare a raccolta i fedeli e gli iconolatri oppure, come vorrebbe ingenuamente la modernità, se non sia piuttosto il potere deflagrante del mercato, della politica e della pubblicistica ad averla asservita e assoggettata al predominio inarrestabile delle sue funzioni persuasive e del suo valore d’uso, reclamando legittimamente un ruolo di supremazia. Attorno a questo dilemma si muovono molti studiosi e insigni storici delle immagini e attorno ad esso si aggirano anche le opere di Paolo de Cuarto, opere dal fascino incantatorio, delicato, mai urlato e che appaiono come il risultato di un processo che agisce più facilmente per sottrazione e per allusione che per aggiunta e per via esplicita. “Ridurre al minimo, togliere, sgrossare” pare essere la sua cifra espressiva, eliminando ogni ridondanza e ogni eccesso.

Ma facciamo un ulteriore passo avanti, guardiamo ancor più nel dettaglio quei decenni centrali del secolo passato e cerchiamo di accordarli alle ricerche del nostro artista. De Cuarto intesse una riflessione che si articola intorno alla centralità del ruolo dell’immagine, considerata, come ripetuto più volte, nella sua evoluzione che parte dall’inizio del secolo, passa per il ventennio fascista, attraversa gli anni ‘50 per approdare infine ai giorni nostri. Perché si concentra in modo specifico sugli anni ‘50 e ‘60? Cosa lo attrae in modo tanto irresistibile? Negli anni ‘50 assistiamo alla nascita e allo sviluppo del design italiano, delle forme accattivanti e delle ricerche più innovative. Soprattutto in Italia – ma le riflessioni visive di de Cuarto non si arrestano ai confini nazionali – quel periodo storico è provvido di sperimentazioni, di ricerche, di intuizioni e creazioni geniali che ancora forniscono il profilo a gran parte della modernità. Sono gli anni nei quali si disegnano i confini e i contorni di un mondo che è quello nel quale ancora viviamo. Sono anni ricchi di creatività, di fiducia nel futuro e di grande curiosità. È proprio di quegli anni, infatti, l’affermazione definitiva di marchi come Campari, Nutella e Vespa – alcuni di essi esistevano da decenni ma erano rimasti confinati a una dimensione “provinciale”, in virtù dell’affermazione del prodotto e non del marchio. Dopo la metà del secolo e grazie anche a campagne pubblicitarie indimenticabili, questi marchi si impongono sullo scenario mondiale grazie alla forza di un prodotto che travalica i confini della moda per diventare oggetto di design e dunque di culto. L’oggetto di design, suggerisce infatti il critico Philippe Daverio, nasce come risultato di un sogno, di un’utopia e prende forma dalla necessità di creare qualcosa che mai era esistito prima. E l’oggetto di design, continua il critico, si differenza da ogni altro oggetto d’uso per la semplice ragione che il suo marchio diviene preponderante rispetto a ogni altra caratteristica dell’oggetto stesso, travalicandone tanto la funzionalità quanto l’estetica. Il marchio diviene immediatamente riconoscibile, idea e oggetto si sovrappongono fino quasi a combaciare. Su questi “oggetti” e sul sogno che incarnano, si concentra l’attenzione di de Cuarto – per gli approfondimenti del caso rimando comunque alle ricche schede curate da Emma Pirozzi –, il quale, con fiuto da segugio, riesce a scovarli e a ripensarli attraverso una riflessione che investe non solo e non tanto l’oggetto in sé, quanto piuttosto il marchio, lo stampo, che riacquista tutto il fascino delle origini attraverso una rivisitazione originale. Alcune delle sue opere – specificamente quelle baciate dal genio – sembrano la chiosa visiva alle parole di un grande scrittore, secondo il quale “quando un’impresa cerca di imporre un marchio, obbedisce alla percezione del primato gerarchico del tÝpos, dello stampo, su ogni altra potenza”. Ecco, proprio su questo si concentra l’artista: sulle tracce che il tempo ha depositato su quei marchi – che talvolta possono assumere anche le sembianze di slogan –, che possono essere pubblicitari ma anche politici o propagandistici e che continuano senza tregua a far risuonare nelle nostre menti analogie e rimandi. E per far vibrare un marchio, per riconoscerlo, è sufficiente darne in pasto un piccolo brandello. De Cuarto amputa questi “stampi platonici” e ciononostante tutti riconosciamo immediatamente – anche semplicemente dal carattere del logo o da una sfumatura di colore – il marchio raffigurato.

Ecco spiegate, almeno in parte, le ragioni che hanno spinto la sua forza di indagatore scrupoloso a cimentarsi con le immagini della pubblicità degli anni ’50 che hanno segnato un’epoca nella nostra storia recente, focalizzando l’attenzione sui marchi che hanno accompagnato e permeato la nostra civiltà, riesumando anche i manifesti elettorali con i simboli antagonisti dei partiti della prima repubblica e le immagini di Carosello e in generale tutte le forme che ai nostri occhi paiono tracce di un passato perduto. Tutti i suoi lavori, senza eccezione alcuna, sono prima di ogni altra cosa un omaggio alla memoria. E, secondariamente, un tributo a un’epoca e alle sue orme ormai ricoperte dalla noncuranza e dall’oblio. De Cuarto si lascia incantare dalle scritte della propaganda politica del ventennio che ancora campeggiano sui muri di alcuni paesi, e allo stesso tempo corteggia la grazia impalpabile di certi segni ancora presenti nelle nostre città, che riecheggiano da un lontano passato di guerra e di sciagura, ma non trascura neppure i marchi che nel corso dei decenni hanno acquisito una rinomanza a livello mondiale.

Riassumendo quanto detto fino a ora, si può dire che i lavori di questo artista assumono i connotati di una rievocazione nostalgica, frutto di uno scavo archeologico effettuato sui muri e attraverso la memoria, che implicano una serie di riflessioni sulla funzione dell’immagine e sui cambiamenti sociali avvenuti nel secolo scorso e al tempo stesso vogliono rappresentare un tributo a specifici e cruciali momenti della nostra storia passata.

Ma i quadri di de Cuarto implicano in qualche modo anche un’attenta riflessione sul ruolo svolto dal linguaggio e dall’immagine in termini di persuasione, di propaganda e di pubblicità. Per dare forma a ciò, ha esplorato a lungo il rapporto tra parola e immagine nella pubblicistica e di questa indagine accurata troviamo un’eco profonda in alcune delle sue opere più convincenti.

Ma per affrontare questo aspetto, dobbiamo spostare l’angolazione di qualche grado e far risaltare un altro elemento che ritorna nelle pitture murali di Paolo de Cuarto: quello dello slogan. Riconoscere il potere evocativo e definitivo della parola che si fa slogan, significa infatti ripercorrere il secolo appena passato e riflettere sui mutamenti sociali, sulle fragilità, sui sogni e sulle aspirazioni di un paese e di un’epoca. Lontano da ogni intento sociologico, come ogni artista che si rispetti, de Cuarto si muove su un terreno che è totalmente espressivo. In questi lavori lascia riecheggiare il linguaggio del potere – il termine slogan racchiude in sé prima di ogni altra cosa la sua etimologia gaelica e bellicosa – e, specialmente in quelli di carattere politico, racconta qualcosa sulla nostra civiltà attraverso questo viaggio a ritroso nella storia. Se è vero che gli slogan dei primi decenni del secolo avevano una valenza fortemente politica e si imperniavano in una struttura sociale nella quale il senso di appartenenza a una comunità era decisamente radicato, con il passare dei decenni assistiamo a una presa di potere da parte delle immagini e degli slogan in funzione prettamente commerciale, sintomo di una civiltà in rapidissimo cambiamento e che stava assumendo il profilo di un unico, sterminato mercato globale. L’analfabetismo imperante della prima metà del secolo, che era stato nutrito di slogan tanto convincenti quanto elementari, imponeva sempre più immagini di facile accesso e scritte immediatamente comprensibili, con una significativa preponderanza delle prime.

Durante gli anni del fascismo, il ruolo cruciale della persuasione di massa era affidato alla parola. Al potere del logos – molto più che a quello dell’eikon – era demandata in quel ventennio la capacità di manipolare e controllare la coscienza delle masse. Si potrebbe quasi affermare che ci si “accontentava” di formulare slogan, di declinare pochi concetti-chiave attraverso un uso calibrato ed essenziale della parola, volto a favorire una precisa propaganda politica. L’immagine era tenuta ai margini, quasi che si avesse il sentore di quale potere incontrollabile potesse sprigionarsi dietro la sua parvenza innocua e docilmente maneggiabile. La parola era tutto ciò che serviva per infiammare la propaganda, laddove l’immagine veniva trattata ancora con una sorta di sacro rispetto – forse dovuto alla sua aurea – e dunque maneggiata con cautela. Le scritte risalenti all’epoca fascista e che ancora fanno mostra di sé sui caseggiati rimasti in piedi, testimoniano del predominio assoluto della parola su ogni altra forma di comunicazione. Tutto ciò che riguardava la dimensione iconografica era ancora considerato appannaggio di un ceto privilegiato che ne potesse fruire in modo esclusivo. Sironi, Funi, Depero, il gruppo Novecento di Margherita Sarfatti e in generale gli artisti legati al regime, creavano per una elite, incarnata da un lato da quel che restava dell’aristocrazia e dall’altro da una borghesia colta, custode dei valori della tradizione e curiosa al tempo stesso di confrontarsi con i linguaggi della modernità. Con la fine del ventennio fascista, nel dopo guerra e poi nel corso degli anni ‘50, questa cautela è stata progressivamente abbandonata: l’immagine è diventata – in modo rapido e inesorabile – sempre più protagonista di ogni forma di comunicazione e di propaganda, da quella più manifestamente pubblicitaria a quella più subdolamente politica, lasciando agli altri linguaggi ruoli del tutto marginali, di contorno. È all’interno di questa storia secolare che bisogna inserire questi barbagli ai quali de Cuarto dà forma con la cura e la dedizione maniacale proprie del restauratore. Il mondo al quale l’artista guarda con nostalgia è quello che prende forma dopo la guerra ma che affonda le radici nei primi decenni del secolo. Negli anni ‘20 il mondo anglosassone è scosso dalle prime pubblicazioni di studiosi che si dedicano alla comprensione dell’immagine come strumento di propaganda – o “fabbrica del consenso” come è stata definita da un ricercatore statunitense dell’epoca. Secondo quelle analisi non soltanto la parola e la carta stampata – sono della seconda metà dell’’800 la nascita e la diffusione dei quotidiani e dei manifesti – ma soprattutto la fotografia e l’industria del cinema avrebbero contribuito alla diffusione di certi ideali, dottrine o semplici messaggi politici. Dunque è l’immagine che si erge al ruolo di protagonista della vita psichica, sociale e politica del secolo. C’è un passaggio culturalmente decisivo dalla lettura alla visione.

L’artista rielabora, ripensa, trasfigura, frantuma, decompone e ricompone, in una parola evoca attraverso le immagini, un culto del quale, attraverso il suo lavoro, offre una personalissima liturgia. Un evento, un fatto storico, un dettaglio in apparenza trascurabile sono interessanti ai suoi occhi soltanto per ciò che possono offrire in termini di stimolo archeologico e rievocativo, per dare sfogo a quella smania di recupero e restauro dell’immagine che costituiscono la sua forza e la sua assoluta originalità. Sarebbe sufficiente questo per inserire de Cuarto di diritto nell’invidiabile compagnia dei maniaci dell’arte – che possiamo immaginare capeggiati da Balzac o anche da Picasso –, di coloro cioè che tutto vedono sotto forma d’arte e agli occhi dei quali ogni accadimento, ogni traccia, ogni frammento assumono interesse soltanto se si prestano a diventare stimolo alla creazione.

Anche una semplicissima e apparentemente banale scritta “rifugio” – tuttora presente sul profilo di un marciapiede milanese – può assumere per lui una valenza iconografica per nulla trascurabile. Sui muri del capoluogo meneghino, negli anni della guerra, facevano bella mostra di sé scritte che indicavano le uscite di sicurezza dei locali pubblici – U.S. – oppure il più vicino rifugio antiaereo attraverso sigle o semplici frecce. Vale forse la pena conservare quei brandelli, quelle testimonianze di una storia, di un periodo e riportarle in vita, anche se il loro valore estetico non può certo ambire al rango della grandezza? La risposta di questo artista giovane e sorprendente è gioiosamente positiva. Sono luoghi, quelli, nei quali torna a convergere la memoria di una comunità, sembra dire Paolo de Cuarto, che attraverso questo lavoro realizza un’operazione dai connotati al tempo stesso estetici e archeologici, vivificando le scritte e le immagini perdute e conservando il sapore di una storia che andrebbe perduta. Storia marginale si dirà? Ogni storia merita di essere narrata – è l’assunto di ogni grande scrittore – a patto però che si trovi il registro linguistico per farlo. E de Cuarto l’ha di certo trovato, dando vita a opere che hanno un sapore originale, sorprendente e mai ripetitivo.

Non è azzardato affermare, allora, che il lavoro raffinato di de Cuarto si muove proprio tra questi due elementi: l’immagine da un lato e la parola scritta sotto forma di slogan dall’altro. Partite a inizio secolo come forme complementari del linguaggio, in modo lento ma inesorabile l’immagine ha preso il sopravvento, giungendo a informare una intera cultura e una civiltà – quella cosiddetta dell’immagine appunto, nella quale siamo immersi. Di questa civiltà l’artista fa parte e di essa ci ha restituito una visione carica di magia, permeata di cenni nostalgici e ricca di suggestioni visive.

 

 

I quadri a matita

Vogliamo dedicare un breve cenno ai lavori a matita realizzati da questo artista. La capacità di sperimentarsi di Paolo de Cuarto si declina nelle sue ricerche tecniche non meno che nelle scelte stilistiche e iconografiche. Una riprova di quanto detto la si ha osservando con attenzione i suoi lavori a matita, opere che conservano la delicatezza del suo stile e che giocano sul registro allusivo e tratteggiato del disegno, evocando per certi aspetti la dimensione nascosta e primitiva della sinopia. Sono opere nelle quali assistiamo alla metodologia di lavoro di de Cuarto, che opera per sottrazione, togliendo, sgrossando e lasciando vivere solo i tratti essenziali. Ecco allora che prende corpo la magia: l’abolizione dei colori sgargianti che hanno invaso la contemporaneità e la soppressione di ogni forma di femminilità ostentata, danno corpo all’essenza della sensualità stessa, che si manifesta attraverso una posa velatamente ammiccante o in un sorriso carico di ambiguità. Se da un lato queste opere rimandano alla tecnica dei lavori murali e alle suggestioni originarie, dall’altro abbiamo un’ulteriore conferma di quanto detto sino a ora, vale a dire che lo stile di questo artista si muove su un registro delicato, sussurrato e pieno di rimpianto, che opera per sottrazione e mira al cuore dell’immagine.

Lo stile sfumato, discreto ed elegante di questi lavori evoca infatti il fascino un po’ retrò di quelle immagini di inizio secolo, che nel corso dei decenni si trasformeranno acquisendo un tono sempre più ostentato, rumoroso, quasi urlato e comunque privo di quella grazia e ambiguità che saranno marchiate a fuoco ed espunte dalla cultura visiva dell’occidente. Questi lavori rappresentano in un certo senso la cura, l’antidoto, la risposta del gusto e dello stile all’invadenza della volgarità visiva, giocando su un registro nel quale predomina l’allusione sull’ostentazione, il nascosto sull’esibito.

Tecnica.

“Il dipingere sul muro, definito dagli antichi il più dolce e il più vago lavorar che sia, non significa sempre fare dell’affresco”. Così cominciava il saggio di una celebre storica dell’arte sui significati della pittura murale. Paolo de Cuarto si muove esattamente nel solco tracciato da quel saggio. Riproduce il muro sulla tela e lavora sull’intonaco non a fresco, bensì a secco e attraverso una serie di procedimenti tecnici volti a ricreare primariamente il senso della consunzione e dell’usura alle quali è sottoposta la materia murale da parte degli elementi. Invecchiate attraverso l’uso del caffè e tramite un’operazione definita grattage – interventi cioè di raschiamento con carta vetrata –, i lavori vengono poi sottoposti a processi di bruciatura mediante faretti da 1000 watt. A tutto questo si aggiunge l’introduzione della sabbia nell’impasto di preparazione – composto da malta e vinavil – per dare un tocco ulteriore di casualità nella stesura del composto. La sabbia consente inoltre di conferire all’opera una dimensione più grezza, lasciando emergere talvolta in modo assai marcato quel tentativo, come detto, di riprodurre in modo fedele la consistenza del muro cittadino. La poetica di de Cuarto, che potremmo definire una “poetica del frammento, del brandello”, assume così, grazie anche a questi aspetti tecnici, uno spessore che affonda le radici in una dimensione fortemente artigianale, la sua cifra espressiva rimanendo, in ogni caso, decisamente permeata dai toni della delicatezza e della levità.

De Cuarto riporta sulla tela la pelle dei muri, la memoria e la testimonianza di un’instancabile battaglia contro l’oblio. Una battaglia difficile, a volte aspra, ma forse la sola degna di esser combattuta con gli strumenti dell’arte e con la grazia e l’eleganza proprie dell’artista di razza.



Stefano Galli